L’uomo e l’intelligenza artificiale: un dialogo di ombre e specchi

two hands touching each other in front of a pink background




Nell’era in cui le macchine sembrano sul punto di sopraffare definitivamente il loro creatore, ci si chiede se, alla fine, l’uomo, smarrito nel suo riflesso, non abbia calcolato il rischio concreto di perdersi definitivamente. L’Intelligenza Artificiale é un’entità sempre più presente e invadente nelle nostre vite, e non soltanto a livello “professionale”; gli ultimi anni hanno visto crescere app semplici e intuitive che, pur non raggiungendo le vette dei “cugini maggiori”, permettono a chiunque di utilizzare l’AI, anche laddove non se ne sentirebbe la necessità. Basta dare un’occhiata ai social: meme con protagonisti dalle fattezze “monche”, vecchie foto “restaurate” in cui i soggetti si trasformano per magia in personaggi Marvel, per non parlare dei lanci pubblicitari in cui la modella creata più che ad assomigliare ad una “modella reale” ricorda una Barbie. L’AI è ormai ovunque, anche tra i banchi di scuola, e l’uso dei dizionari o il semplice impegno per una ricerca personale sono lontani ricordi: ci pensa ChatGPT…

a cell phone sitting on top of a laptop computer

Sin dai suoi esordi – preistoria, ormai – l’idea di un’intelligenza artificiale ha provocato un miscuglio di fascinazione e timore. Quando Alan Turing, nel 1950, postulava il celebre “Test di Turing”, per la prima volta metteva in discussione la natura stessa del pensiero umano. Ma ciò che forse gli sfuggiva era che l’intelligenza, per quanto complessa e sofisticata, non può mai essere del tutto separata dall’esperienza vissuta, dalle radici storiche, culturali ed emotive che ci costituiscono. Un algoritmo può calcolare e ragionare, ma non può mai «vivere» come noi viviamo. Può simulare il linguaggio, ma non ne può afferrare il peso, non ne può comprendere il respiro.

Cos’è l’uomo se non un’intelligenza “costretta” a confrontarsi con i propri limiti, con la morte e la sofferenza? L’intelligenza artificiale, da questo punto di vista, è pura razionalità: calcolo, previsione, ottimizzazione. Ma cosa c’è dietro quel calcolo? L’AI non ha una profondità, non ha una storia, non possiede quell’inquietudine che tormenta ogni essere umano dalla notte dei tempi, quella che lo rende consapevole della propria finitezza e della propria solitudine esistenziale. L’AI scambia la simulazione con l’esperienza, l’efficienza con il significato: quando un’intelligenza artificiale risolve un problema complesso in un secondo, essa non ne coglie mai il senso, eppure, a pensarci, sono proprio i significati ed ogni più piccola sfumatura a costituire la parte più autentica dell’intelligenza umana. Ogni risposta umana è il frutto di un lungo dialogo con la propria ignoranza, e l’Intelligenza Artificiale, pur essendo un prodigio di ingegneria, nasce “imparata”; non c’è spazio per l’errore, anche quando l’errore è evidente anche nei risultati ottenuti

an abstract image of a sphere with dots and lines




Certo, l’AI può essere utile, può amplificare o velocizzare dei procedimenti, pu
risultare un ottimo strumento per creare “risparmiando”, ma non dovrebbe mai sostituirsi all’atto creativo umano, inizio e fine di ogni cosa, specie per quei tocchi di imperfezione che rendono l’opera unica. 
In un’epoca dominata dalla simulazione, forse la sola risposta autentica che possiamo offrire è quella di rimanere umani, consapevoli del nostro limite, in costante lotta con il mistero.
E questo mistero, come il tempo, non può mai essere simulato.

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